domenica 11 novembre 2007

2° Biblico: Cantico dei Cantici

Appunti della lectio divina del 9/11/07
con don Cesare Pagazzi


Il secondo canto [Ct 2, 8-17 3, 1-5]
(clicca sui link per leggere il testo)

Il primo segnale da cogliere lungo il sentiero del secondo canto è una “voce” (incipit v.8).

L’amata, l’amica assicura di saper indovinare la “voce del mio Diletto” mentre si avvicina e si fa distinta. L’intuizione del timbro della voce dell’amato, apparentemente, non lascia spazio ad equivoci: lo identifica e lo segue puntualmente nei suoi movimenti, ad esempio mentre “egli viene saltando sui monti, balzando sui colli”. Quasi che per un orecchio vigile, appunto in ascolto, le onde di propagazione di un suono atteso provocassero anche una sorta di riscontro sismico, scalpitante e vitale: l’avvicinamento dell’amato.

Riconoscendo l’udito come senso protagonista di questo secondo episodio ci si espone però ad un risvolto problematico: la voce che attrae l’amata e che perturba la valle può essere al contempo sintomo di presenza e assenza di chi si vuole incontrare. Dal momento che si può benissimo sentire o ascoltare anche chi non è presente, l’udito si presenta infine come un senso spiccatamente acuto, intuitivo, promettente ma poco prensile.

Il Diletto che spunta, intermittente, fra i colli, viene rassomigliato ad una gazzella o a un cucciolo di cervi (v.9). Presso i popoli della Mesopotamia e del Mediterraneo, i cervi, i caprioli e le cerbiatte erano gli animali prediletti da Astarte (Ishtar). I Greci l’avrebbero in seguito chiamata Afrodite, i Romani, Venere. Al fascino di Astarte si attribuiva dunque la capacità dell’appagamento erotico, la capacità di togliere il senno, di sparpagliare e confondere la ragione.

L’amato che incede e balza come un capriolo è dunque sacro ad Astarte, profusione di vigore, virilità, audacia.
Ma un incontro stringente fra i due, ancora una volta, non avviene.
L’amato compare, ormai vicino alla fanciulla: “è già dietro le al nostro muro, guarda per le finestre, spia fra i cancelli.”(v.9).
La vicinanza non implica per forza di cose una s
-coperta decisiva. La vista rimane in costante tensione mentre spia, si aguzza, sopporta gli oltraggi delle inferriate. Il contatto, il riscontro più efficace della presenza dell’altro, viene addirittura negato. L’indisponibilità dell’amato viene rimarcata per contrasto dall’insistenza della sua voce che richiama e attrae l’amata:

Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!” (v.10).

La traduzione italiana smorza un pochino la risonanza del greco “egheìron”, ossia “sorgi”.
La Traduzione dei Settanta ripropone il medesimo richiamo alla vita nel Nuovo Testamento, in particolare negli episodi dei Vangeli in cui si narra di due resurrezioni volute da Gesù.

Nel Vangelo di Marco, Gesù rivolge alla bambina morta, figlia di uno dei capi della sinagoga di Gerasa, queste parole: “Talithà Kum!” che tradotto significa: “Fanciulla, ti dico, sorgi!”. (Mc 5, 41). Non solo, dunque, la bambina si alza. La bambina sorge, dopo essere stata affettuosamente iniziata ad una nuova vita: Gesù la nomina “talithà”, ossia giovane donna non più bambina, in grado di vivere e di darsi alla vita contribuendo con la sua fertilità.

Dal consenso alla resurrezione non può che scaturire libertà che si leva, incoraggiamento verso un’espressività libera e personale. A conferma di ciò, l’esortativo “egheìron” viene adottato nell’episodio del Vangelo di Giovanni in cui si narra la resurrezione-liberazione di Lazzaro. Una volta “tirato fuori” l’amico, Gesù intima ai presenti di liberarlo. L’ebraico preferisce infatti sottolineare la trazione liberatoria del “venire fuori”, del sorgere: “Scioglietelo e lasciatelo andare!” (Gv 11,44).

Alla luce di queste sensate precisazioni etimologiche, il richiamo dell’amato, voce protagonista del secondo canto, suonerebbe circa così:

Sorgi, talithà, mia bella, e vai!”.

Il legame amoroso, inteso come relazione edificante e appagante, non può non pretendere la libertà dell’altro, non può non volere la tutela della sua persona. Dove il legame è vero, ossia veramente capace di relazione, la propulsione dovrà prevalere sulla captazione, l’esposizione alla libertà dell’altro dovrà dissuadere dalla tentazione mortifera del dominio unidirezionato sull’altro.

La comprensione e la bene-volenza della libertà della persona amata lasciano certamente trapelare anche la difficoltà, lo sforzo che richiede la cura di ogni legame umano. Il percorso di reciproca conoscenza, di reciproco affidamento è certamente lungo e tortuoso per tutti. Prevede la traversata e il ripetersi ciclico di momenti significativi, di stagioni tanto compenetranti quanto contraddittorie. “Ecco, l’inverno è passato, cessata è la pioggia, se n’è andata. (v.11).

Cantico dei Cantici II, Marc Chagall


Il canto, facendo eco alla struttura di alcuni passi del Qoelet, prosegue con un breve e significativo elenco di trasformazioni primaverili, indicative del fatto che il tempo per l’inverno è giunto al termine. Occorre però far bene attenzione a non estremizzare la piacevole sensazione del riscatto, della rifioritura della terra e delle occasioni bruciate della vita. La tentazione frequente è infatti quella di prediligere e menzionare solo il tempo della primavera come stagione bella, ricca di grazia e di meriti. L’esercizio della premura e della consapevolezza per il valore dei legami porta invece a diffidare della teoria dei “momenti magici” e a virare verso il riconoscimento della necessità di ogni fase dei rapporti umani e degli umori stagionali. La sensazione di tristezza che l’inverno porta con sé ha un senso che le verrà riconosciuto nell’esuberanza della primavera stessa. L’abbondanza del grano, delle fioriture, degli aromi dipende dall’abbondanza delle piogge invernali. Ogni campo fertile è frutto di un lungo e spesso impercettibile lavorio di preparazione: è il lavoro umile ed essenziale del dissodamento invernale. La primavera vale per questo anche come scioglimento dal giogo del lavoro servile. È la stagione in cui gli Ebrei celebrano la Pasqua, la stagione che più di tutte manifesta l’emergenza di verbi “esodiaci”, di atti liberatori.

L’amato richiama la fanciulla al risveglio dal torpore invernale, le chiede una reazione primaverile, tanto provata quanto libera, capace di s-coprire per intero il contorno del suo viso.

Ma un incontro stringente fra i due, ancora una volta, non avviene.
Sul più bello arrivano “le piccole volpi che devastano le vigne”, finalmente in fiore (v.15).
Siamo qui invitati a imparare a custodire i nostri legami. A riconoscere la vulnerabilità delle nostre qualità migliori, a riconoscere la rischiosa esposizione dei momenti culminanti di pienezza e felicità. Le condizioni armoniche sono da godere ma non sono dati di fatto. La corrispondenza del legame va ricercata, raffinata, vigilata perché siamo sempre responsabili della vita di chi amiamo. Se trascuriamo i legami ci rendiamo conniventi all’incorrere delle volpi, dei crepa cuori, degli assedi.

Allenarsi al presidio e alla valorizzazione di quanto ci è donato, mai garantito, può tornarci utile soprattutto nei momenti di inaspettata solitudine, nei momenti in cui nuove e “siderali” distanze si prospettano tanto all’orizzonte quanto fra le mura domestiche, pronte a dividerci da chi amiamo.

Sul mio letto, nelle notti, ho cercato colui che il mio cuore ama; l’ho cercato e non l’ho trovato” (Ct 3,1).

Per certi versi, la disperazione dell’amante scornata richiama lo sconcerto della Maddalena presso il sepolcro vuoto, tomba del suo Signore (Gv 20, 11-13).

Impariamo a “sapere” la separazione e la perdita come portatrici di un gusto e di un retrogusto. Da una parte è dovere della persona che ama continuare a ritenersi degna di piena corrispondenza. È dovere, dal momento che è bene ricordare che in qualsiasi relazione umana si spende la maggior parte del tempo a cercarsi, non a trovarsi. La talithà ferita, pur di continuare a stare in ricerca, tenta il tutto per tutto: trasgredendo i costumi dell’epoca arriva a compiere l’indecenza di uscire di casa nel cuore della notte per chiedere notizie dell’amato alle sentinelle di ronda (v.3).

Dall’altra parte, la separazione improvvisa, magari anche non presagita, ripropone la problematica e inevitabile questione dell’indisponibilità e dell’indisponenza dell’altro. Educarsi al rispetto dell’indisponibilità dell’altro è fondamentale proprio perché rende il legame consistente, corroborato, saggiabile. Diceva bene S.Agostino sostenendo che l’attesa, e in fondo la fatica del riconoscimento della perdita, aumenta il desiderio.

In effetti, il ritrovamento dell’amato viene bene e in un duplice baleno sul finire del secondo canto: la figlia di Gerusalemme afferra colui che è amato dal suo cuore e lo conduce nella casa di sua madre, con l’intenzione di non lasciarlo più. (v.4).

Al contempo, lontana o vicina che sia, riemerge la voce dell’amato, una voce che scongiura: l’amata non deve essere svegliata dal suo sonno, almeno fino a quando tale sogno di idilli, indisponenze e risvegli le piacerà. (v.5)
Un incontro stringente fra i due, ancora una volta, non avviene, mentre si apre un nuovo, inquietante scenario di ricerche e intrecci del medesimo, provato legame.


Monica Guida

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