lunedì 12 aprile 2010

4° Biblico: Qoelet

Appunti dell'incontro del 9/04/2010
con don Cesare Pagazzi




Nei capitoli 5,6 e 7 non c’è più un ragionamento serrato, ma viene presentato un collage di massime sapienziali che o elabora lui stesso o recupera da altri libri sapienziali.


5,1-6

C’è un discorso generale sull’uso della bocca e della parola, in particolare ci si concentra sulla parola rivolta a Dio, sia essa una preghiera, un voto, una promessa. Il consiglio generale è quello di usare poche parole; usare tante parole può alludere a una scarsa o irrealistica interiorità. Quando una parola sa di interiorità, è sempre una parola faticosa: la mia interiorità è qualcosa di unico, per cui fino a un certo punto le parole universali servono, ma quando raggiungo la parola che è soltanto mia, le parole mancano. Per il sapiente, una persona che usa molte parole, usa solo parole universali; non arriva mai al livello della parola sua perché quella ha la caratteristica di essere faticosa, solitaria. Perché le parole sappiano della nostra interiorità, dobbiamo avere la pazienza di stare con noi stessi.


6,1-6

Viene descritto un male molto pesante e molto diffuso, che si può ritrovare anche nella parabola dei talenti: il male di chi ha dei beni, e non ne gode. Dio ha riempito ciascuno di noi di beni, e noi non ne godiamo. Non riuscire a godere della vita è il peccato/male tra i più diffusi; per questo l’umanità è disperata e non ha più fede.

Paolo VI, come descritto nel "Pensiero alla Morte", riesce ad attraversare il passaggio della morte perché è molto legato al mondo “di là” ed è legatissimo al mondo “di qua”: chi gode del mondo riesce a staccarsene perché ha preso dal mondo tutte le possibilità che il mondo gli ha dato di sperare; il non godere delle cose che Dio ci ha dato non è soltanto uno spreco di opportunità , ma è uno spreco della possibilità di continuare a sperare, quindi di vivere, di decidere, di scegliere, di dare forma alla nostra vita e quindi di dare modo agli altri di capire che vale la pena di essere vissuta.


7,1-4

In questo inizio di capitolo viene posta l’attenzione sulla morte, vero centro della vita di una persona: la morte sigilla, libera l’uomo dal divenire; la morte è un libro chiuso che posso leggere, la morte dà completezza alla vita. S.Paolo dice: “non giudicare nessuno prima della morte”, ovvero giudica una vita quando è completa. Nei versetti successivi, viene presentata una massima che può essere letta come “l’essere per la morte” di Heidegger: riflettere sulla morte fa sì che le scelte di ogni giorno assumano tutto un altro senso. Prendendo coscienza che il nostro tempo è limitato riusciamo a dare un senso diverso alle nostre scelte, alla nostra vita. “Signore, insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore”-Salmo 90. Ovvero: non sprecare il tempo, godi la vita. “Il cuore dei saggi è una casa in lutto”. Quando si è in lutto, il dispiacere e la carica emotiva sono riversati e rapportati a noi stessi: quella persona non c’è più per me; è la sensazione di non essere più gratificati dalla presenza di quella persona. La questione è che il lutto “mortale” è l’esperienza eclatante -e piuttosto rara-, che esprime una regola normale di ogni relazione, anche nell’aspetto più feriale: ci dice che le persone hanno sempre un “resto” indisponibile per noi. Questo “nucleo di resistenza” che io non riuscirò mai ad avere è un mistero che neanche la persona stessa riesce a dare; è anche ciò che rende difficile la relazione. La morte è l’estrema indisponibilità della persona, e il saggio è ben consapevole del carattere luttuoso anche della più felice relazione. Nel cantico dei cantici, infatti, si ha: “forte come la morte è l’amore”. Una persona che sa amare è compagno di viaggio della morte, perché la persona che egli ama ha sempre un che di indisponibile che lo fa soffrire.


7,10

La tentazione di ritenere i tempi antichi migliori del presente aumenta col passare degli anni, quasi a giustificare il nostro stato e a conferirgli un certo plus valore. Compensiamo il fatto, ad esempio, di non essere più giovani denigrando quell’età. Fondamentalmente, dietro a questa affermazione, c’è una mancanza di fede, cioè il fatto di non credere che Dio possa parlare anche a una generazione che è venuta dopo di noi. Oppure che Dio non possa parlare alla nostra generazione, ma abbia parlato solo in passato. Il saggio però sa cogliere il bello e il buono in ogni stagione della vita e dell’uomo. Bisogna avere un’apertura del cuore e della mente, che ci permette di godere.

7,16-17

Non esagerare. Non essere troppo malvagio che ti rovini; ma non fare neanche il troppo buono, che non va bene. Non fare come lo stolto sempre in festa; fai vedere che anche tu ogni tanto fai fatica ad essere bravo.

7,26-28

L’apice della sapienza di Qoèlet.

Dietro questa affermazione c’è un critica anti-idolatrica (a quei tempi, gli ebrei erano attratti dalle belle cananee, che però erano idolatre) oppure profetica (contro la prostituzione sacra).

Ma si può leggere anche una critica di tipo biografico. Probabilmente, come si era già detto, Qoèlet è uno pseudonimo di Salomone, il quale era il più saggio dei re fino a che “prestò i fianchi alle donne”, cioè fu troppo attratto dalle donne che lo portarono alla perdizione. Quel che però può apparire una denigrazione nei riguardi della donna, è invece un grande riconoscimento della potenza e del mistero femminile, che possono portare l’uomo dove vogliono.

Amedeo Brambilla


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